sabato 6 novembre 2010

Pornocrazia

È stato Liutprando (920-972), storico e vescovo di Cremona, a definire ‘pornocrazia’ il modello di potere le cui fila erano abilmente manovrate da Marozia, figlia di Teofilatto, senatore romano e conte di Tuscolo, e Teodora, “prostituta spudorata” secondo lo stesso Liutprando.
Si racconta che Marozia fosse molto bella ma, soprattutto, che sapesse usare con raffinata perfidia e sconfinata ambizione quanto la natura le aveva regalato. Marozia è divenuta l’icona della depravazione: animatrice d’una fitta catena di crimini, incesti ed intrighi, lussuriosa amante di pontefici e politica abilissima. Il papa Giovanni X, la cui alcova era stata frequentata anche da Teodora, madre di Marozia, la insignì del titolo di “Senatrix Omnium Romanorum”, appellandola perfino “Patricia”.
A quindici anni Marozia era già la concubina del papa Sergio III, cugino di suo padre, e nel 910 da tale relazione nacque Giovanni, il futuro papa Giovanni XI.

Dopo la morte del primo marito, Alberico I duca di Spoleto, Marozia sposa Guido, marchese di Toscana, grande oppositore di Giovanni X che, infatti, Marozia e Guido faranno deporre e rinchiudere in Castel Sant’Angelo, ove Giovanni troverà la morte per strangolamento. Dopo i brevi pontificati di Leone VI e Stefano VII, Marozia riesce a far salire sul trono di Pietro Giovanni XI, nato dalla sua relazione con Sergio III. Giovanni ha solo ventuno anni, un temperamento fragile e molta inesperienza. Sarà, pertanto, la madre a governare per suo conto, facendo così nascere la leggenda della “papessa Giovanna”, vale a dire di una donna che in vesti maschili governò per un certo periodo la chiesa di Roma.
Marozia, nel 932, convola a nuove nozze, questa volta con Ugo di Provenza, eletto re d’Italia, che Gregorovius descrive come perfido e maestro di intrighi, dissoluto e avido, audace e privo di scrupoli, teso soltanto ad ampliare il suo regno italico, anche con i mezzi più sleali.
Ugo era il più genuino rappresentante del suo tempo, ma anche Marozia lo è: i due formarono senza dubbio una coppia assai rappresentativa della loro epoca.
Nel “de oratore”, Cicerone ci insegna che la storia è testimone dei tempi, luce della verità, maestra di vita. Qualche volta si ripete, ma spesso le repliche non sono all’altezza dell’originale.

.

domenica 24 ottobre 2010

Matteo Ricci: la ricchezza dalla diversità

Marco Polo è certamente il più famoso italiano d’Asia. Purtroppo, a volte il suo ruolo viene ridotto alla diatriba sugli spaghetti-noodles: ovvero se Marco Polo abbia portato gli spaghetti in Asia oppure i noodles in Europa (dimenticando che già Cicerone mangiava le “lagana”, nonne delle nostre lasagne). Per giunta, una cospicua corrente storiografica inglese mette addirittura in dubbio l’esistenza di Marco Polo (“il Milione” in verità è stato dettato a Rustichello nel carcere di Pisa, non essendo Marco Polo in grado di scrivere) tralasciando, però, che in quel periodo la comunità di affari italiana (veneziana in primis) a Pechino contava circa 700 unità.
Non vi è dubbio, tuttavia, che il più grande italiano in Asia sia stato Matteo Ricci, gesuita marchigiano (Macerata, 8 ottobre 1552) del quale, peraltro, ricorrono quest’anno i 400 anni dalla morte, avvenuta a Pechino l’11 maggio 1610.

Il giovane Matteo raggiunse Goa, nel 1578, dove completò gli studi e fu ordinato sacerdote. Quattro anni dopo, destinato all’evangelizzazione della Cina, raggiunse Macao, ove apprese il cinese, per poi trasferirsi a Kao-yao e, in seguito, a Nanchino “la più bella e la più grande città al mondo”, secondo Marco Polo, che vi era giunto 315 prima.
Matteo Ricci parlava, leggeva e scriveva correttamente il cinese classico e aveva assunto il nome cinese di Li Madou. Egli godeva di molto rispetto ed alta reputazione per le sue conoscenze scientifiche, innanzitutto matematiche ed astronomiche. Quando previde l’eclissi solare, la sua fama crebbe al punto che, nel 1601, l’Imperatore Wan Li lo designò al ruolo di Consigliere della Corte Imperiale, divenendo così il primo occidentale ad accedere alla “Città Proibita”.
Tuttavia, sebbene Matteo Ricci avesse libero accesso alla Città Proibita, mai egli ebbe l’opportunità di incontrare di persona l’Imperatore che, comunque, gli aveva assegnato un generoso appannaggio, che si rivelò fondamentale per lo stabilimento dei Gesuiti in Cina.
Ricci apprezzava molto la cultura cinese, pur condannando la prostituzione largamente praticata nella Pechino dell’epoca. Egli individuò nei ‘valori confuciani’ il mezzo per spiegare il cristianesimo che, nella sua predicazione, divenne non qualcosa di nuovo ed estraneo, ma semplicemente la maniera più perfetta per manifestare la propria religiosità: infatti, il carattere che rappresenta il Dio del Paradiso cinese - 天主 - è identico a quello di Dio.
Matteo Ricci morì a Pechino l’11 maggio 1610, all’età di 58 anni. Le leggi della Dinastia Ming prevedevano che gli stranieri che morivano in Cina fossero sepolti a Macao. Tuttavia, in considerazione dell’alto contributo di Matteo Ricci alla Cina, l’Imperatore Wan Li concesse che egli fosse sepolto a Pechino, destinando a ciò un tempio buddista – divenuto poi noto come il Cimitero di Zhalan - ove, in seguito, trovarono sepoltura anche altri gesuiti.
Matteo Ricci è autore profondo di opere di matematica, di teologia e di filosofia in latino e in cinese che testimoniano la modernità di quest’uomo nato e vissuto in piena controriforma ma capace di intravedere e apprezzare gli aspetti più considerevoli delle diversità culturali, vera ricchezza per l’Uomo di ogni tempo.


Nell'immagine: Matteo Ricci ritratto in abiti cinesi

venerdì 15 ottobre 2010

UN (ALTRO) PRIMATO CHE NON CI APPARTIENE

Per qualcuno sono magici, altri li considerano veri e propri divi, comunque nessuno dubita che siano ottimamente pagati e riescano ad accumulare (ed a spendere) denaro in misura ragguardevole. I campioni dello sport rappresentano certamente un’icona del nostro tempo ed i loro compensi finiscono per incuriosire e formare oggetto del desiderio per folte schiere di ammiratori.
Il golfista Tiger Woods, secondo la prestigiosa rivista Forbes, ha già superato il miliardo di dollari di guadagni, quindi, molto più dei pur decorosamente pagati Michael Jordan e Michael Schumacher. Tuttavia, tali ragguardevoli guadagni sembrano non esser all’altezza dei compensi percepiti nell’antica Roma dagli aurughi. Gaio Apuleio Diocle nel secondo secolo dopo Cristo ha vinto 35.863.120 sesterzi (equiparabili a circa 15 miliardi di dollari odierni): tanto riporta Peter Struck in un articolo pubblicato sulla rivista di storia Lapham's Quarterly, sulla base di una iscrizione su marmo, rinvenuta in un monumento funebre eretto a Roma da 146 ammirati colleghi aurighi del grande Gaio Apuleio Diocle.

Questi, di origini ispaniche, cominciò a gareggiare per la squadra Bianca all’età di 18 anni. Dopo sei anni, passò alla squadra Verde, per approdare, ormai ventisettenne, al Team Rosso per il quale ha gareggiato - "campione di tutti i carri" -  fino al suo ritiro all'età di "42 anni, 7 mesi e 23 giorni". Caio Apuleio Diocle ha vinto 1.462 delle 4.257 gare alle quali ha preso parte, vittorie che, come detto, gli hanno fruttato la considerevole cifra di 36 milioni di sesterzi.
Dobbiamo principalmente a Tacito e Svetonio la descrizione dello svolgimento e più ancora del significato e dell’importanza delle corse presso i romani. Curioso apprendere che l’imperatore Caligola, acceso tifoso dei Verdi, giunse a far avvelenare cavalli ed aurighi avversari per favorire la propria squadra. Il Circo Massimo, ove avevan luogo le manifestazioni sportive di maggior rilievo,  poteva ospitare fino a 250mila spettatori i quali, se plebei, erano disposti a mettersi in coda sin dal giorno prima per ottenere buoni posti. Gli aristocratici, invece, potevano godere di tribune loro riservate. Considerato che tali spettacoli rappresentavano eccellenti occasioni per incontri con signore dell’aristocrazia, Ovidio raccomanda di prestare molta attenzione a dove prender posto, magari “lasciando indugiare la propria mano nel ravvivare e render più soffice il cuscino del sedile della signora”.
Insomma, non solo non abbiamo creato gli sportivi più pagati di sempre, ma nemmeno la ‘mano morta’ sembra esser una invenzione dei nostri tempi.

 
Nell'immagine il Circo Massimo di Roma
 
 
.

sabato 2 ottobre 2010

Un Intreccio Magico

David Godwin, un australiano con la passione (da me orgogliosamente condivisa !) per la MG, ha realizzato un sogno: assieme ad altri sei equipaggi, di età compresa tra i 54 ed i 70 anni, ha percorso in MG l’antica ‘Via della Seta’, dalla Cina fino al Regno Unito, attraversando Kazakhstan, Kircyzstan, Uzbekistan, Turkmenistan, Iran, Turchia, Grecia, Albania, Montenegro, Croazia, Slovenia, finalmente l’Italia (accolti a Brescia dal Presidente dell’MG Club d’Italia), per poi proseguire, attraverso la Svizzera, la Germania e la Francia, verso Longbridge, nel Regno Unito, ove sono assemblate le moderne MG.

Alla magia della gloriosa auto sportiva, quindi, si è intrecciato il mito di quel percorso – la “Via della Seta” – che per secoli ha assicurato, il contatto, lo scambio, il passaggio, la contaminazione di culture, ancor più che di merci e mercati.
Fu il geografo tedesco Ferdinand von Richthofen, nel 1877, a definire “via della seta” il reticolo degli oltre ottomila chilometri che, con itinerari non sempre agevoli sia terrestri, che marittimi e fluviali, hanno consentito lo sviluppo del commercio e di ogni altro scambio tra l’impero cinese e l’Occidente.
Pur se già ai tempi di Erodoto (475 a.C. circa) i mercanti percorrevano agevolmente i tremila chilometri della ‘Via Reale Persiana’ compresi tra Ecbatana (oggi Hamedan), Susa (Shush) e fino al porto di Smirne (Izmir) sull’Egeo, occorre attendere Alessandro Magno (356 – 323 a.C.) e le sue conquiste in Asia centrale, fino alla valle dell’Indo ed oltre l’odierno Afganistan, perchè si arrivi a stabilire comunicazioni regolari tra Oriente ed Occidente.
Nearco, il magnifico ammiraglio di Alessandro, aprì una rotta dal delta dell’Indo al Golfo Persico, e successivamente furono i Tolemei, impadronitisi dell’Egitto, a promuovere attivamente le vie commerciali con la Mesopotamia e l’India, attraverso i loro porti sul Mar Rosso ed i percorsi terrestri dei loro carovanieri.
Talune fonti attribuiscono addirittura a Giulio Cesare, di ritorno dall’Anatolia (ma altri storici fanno risalire la ‘scoperta” alla disfatta di Crasso a Carre), l’aver portato a Roma alcune bandiere, catturate al nemico, di uno sfavillante tessuto ancora sconosciuto che suscitò uno straordinario interesse: era la seta!
Il Senato di Roma emanò, invano, diversi editti per proibire alle donne, ma anche agli uomini, di indossare la seta, stante la intrinseca decadenza ed immoralità di questo tessuto. Naturalmente, nulla poterono gli editti e la seta continuò ad arrivare a Roma con la intermediazione dei Parti e dei mercanti di Palmira e di Petra, grazie all’abilità dei marinai di Antiochia, di Tiro e di Sidone.

Ma sulla Via della seta hanno viaggiato anche molti influssi artistici, in particolare nella sua sezione dell’Asia Centrale, dove si sono potuti mescolare elementi ellenistici, iraniani, indiani e cinesi.
Perfino Borea, dio greco del vento, ha compiuto uno stupefacente viaggio sulla Via della Seta, attraverso l’Asia Centrale e la Cina, fino a diventare il dio giapponese shintoista del vento, denominato Fujin.
Ma Borea non viaggiava in MG. Non ancora!

 
 
Nelle Immagini: David Godwin e la sua meravigliosa MGA; la 'Via della Seta'; Il dio del vento: da Borea a Fūjin.
 
.

sabato 25 settembre 2010

La drammatica fine di un'epoca

Non si era ancora spenta l’eco delle celebrazioni del Cinquantenario della XVII Olimpiade (Roma, 25 agosto - 11 settembre 1960), che Roma ha festeggiato il 140˚ anniversario della brecccia di Porta Pia, quindi della propria annessione al neonato Regno d’Italia e della sua elezione a capitale d’Italia. Non ha, invece, trovato molte opportunità il ricordo di un altro – drammatico - anniversario: i 1600 anni del Sacco di Roma ad opera dei Visigoti di Alarico.

La Porta Salaria fu aperta agli assedianti nella notte tra il 24 ed il 25 agosto 410 ed il sacco durò tre lunghissimi giorni e tre terribili notti. Poco fu risparmiato, nonostante Alarico avesse raccomandato moderazione e rispetto per i luoghi di culto. Alarico aveva posto il papa Innocenzo I sotto la propria protezione, ma questi dovette assistere impotente allo scempio compiuto dai Visigoti, a cui si erano uniti gli schiavi liberati ed assetati di vendetta.
Tra gli ostaggi fu catturata anche Galla Placida, sorella dell’imperatore d’Occidente Onorio, che presto fu impalmata dallo stesso Alarico e, alla morte di questi, sposerà il suo cognato Ataulfo.

L’Urbe non era stata violata dai tempi di Brenno, re dei Celti (390 a.C.), e nonostante non fosse più la capitale dell’Impero (a vantaggio di Ravenna per l’Occidente e di Costantipoli per l’Oriente), continuava ad esserne il centro: città cosmopolita, ricca e dinamica, straordinariamente capace di integrare ed amalgamare in perfetto equilibrio popoli e culture differenti.
L’epoca del sacco di Alarico era caratterizzata da cambiamenti profondi (qualcuno la paragona ai notri tempi!): un’epoca in cui nessun confine appariva ben definito: il ‘limes’, il confine dell’Impero, poteva variare anche di centinaia di chilometri, ma sopratutto le identità erano poco definite: i romani erano sempre più un po’ barbari ed i barbari sempre più romani. Varie popolazioni barbare si erano convertite al cristianesimo ed erano in grado di ben esprimersi in latino, mentre molta dell’elite romana era ormai per lo meno mista: Stilicone, il grande generale che lottò contro Alarico, era di madre romana ma di padre vandalo ed i suoi stessi legionari erano in maggiornaza barbari. Inoltre, se è vero che le invasioni barbariche erano in realtà migrazioni di interi popoli alla ricerca di nuove opportunità e nuove terre più ospitali e generose, è ugualmente vero che la stessa Roma avvertiva il bisogno di linfa nuova ed energie giovani per affrontare la sfida dei tempi ormai mutati.
Il sacco di Alarico non lacerò solo gli edifici dell’Urbe, quanto piuttosto il simbolo rappresentato da Roma di un potere ritenuto eterno. Sant’Agostino, nel ‘De Civitate Dei’, vide nel sacco di Alarico la punizione divina inflitta all’antica capitale del paganesimo ed il segno della imminente fine del mondo.
Ci vollero anni per comprendere la portata reale del gesto di Alarico: ben al di là delle pure imponenti spoliazioni, tutto era cambiato nel profondo ed una nuova epoca era cominciata.

 
.

sabato 18 settembre 2010

Un Riconoscimento Prestigioso

È considerata sinonimo di equilibrio e, addirittura, fonte di sana longevità, ma in pochi avevano immaginato che la ‘Dieta Mediterranea’ potesse esser annoverata tra i beni universali, aggiunta al Patrimonio Mondiale dell’Umanità da salvaguardare e proteggere.

Dobbiamo ad Ancel Keys la definizione di “dieta mediterranea”. Lo studioso americano, in Italia durante la seconda guerra mondiale, aveva rilevato la ridotta incidenza di malattie cardiovascolari tra le popolazioni del Mediterraneo, profondamente caratterizzate da abitudini alimentari legate alle tradizianali culture del grano, dell’ulivo e della vite (triade alimentare peraltro ripresa anche nel simbolismo cristiano del pane, del vino e dell’olio).
Cosi come in natura, infatti, sulla tavola mediterranea non compaiono alimenti che contengono sia amidi che grassi, alimenti che comunque – altra caratteristica fondamentale della tradizione mediterranea - sono consumati sul luogo di produzione, secondo la loro stagionalità e senza manipolazione.
Alla Dieta Mediterranea, stile di vita sostenibile basato sull’insieme di pratiche alimentari, conoscenze e competenze tradizionali, trasmesse di generazione in generazione, l’Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura, attribuirà nel prossimo novembre il più prestigioso dei suoi riconoscimenti: l’iscrizione nella Lista del Patrimonio Mondiale Immateriale dell’Umanità da proteggere, salvaguardare e trasmettere alle future generazioni.

La prestigiosa Lista dell’Unesco, che raccoglie gli elementi immateriali considerati unici al mondo, attualmente consta di 166 elementi (tra cui il Samba brasiliano ed il Kris indonesiano) di cui solo 2 italiani: l’opera dei pupi siciliani e il canto a tenore sardo. La Dieta mediterranea diventerà così il terzo elemento italiano.
L’importante riconoscimento (che con l’Italia premierà anche la Grecia, la Spagna ed il Marocco: tutti paesi proponenti, coordinati dall’Italia) supera la concezione, evidentemente ora considerata arcaica, della cultura legata alla materialità degli elementi, introducendo il patrimonio intangibile, fatto anche di tradizioni e pratiche agro-alimentari, valori particolarmente importanti nella nostra cultura che, quindi, meritano attenzione, salvaguardia e valorizzazione al pari dei beni materiali.


.

sabato 14 agosto 2010

Feriae Augusti

Istituito nel 18 a.C. dall’Imperatore Ottaviano Augusto, il ‘Riposo di Augusto’ (Feriae Augusti, da cui Ferragosto) celebrava, alle calende di agosto, la fine della intensa stagione dei raccolti e dei principali lavori agricoli. Tuttora, in talune regioni a forte vocazione agricola, è in questo giorno che si regolano i contratti e si onorano le transazioni.
In realtà, tale festa si aggiungeva alle numerose altre che costellavano l’intero mese di agosto con la finalità di offrire un adeguato periodo di riposo, dopo le fatiche profuse per i vari raccolti.
Il 13 agosto, ad esempio, ricorreva la festa di Diana, la regina delle selve, al cui tempio sull’Aventino convenivano la mattina del giorno della festa padroni e schiavi, senza distinzione di casta. Per tutto l’anno le donne avevano appeso alle pareti del tempio tavolette votive e la avevano invocata come Lucina, protettrice dei parti.
Nello stesso giorno veniva celebrato anche Vortumno, dio preposto alla trasformazione ed al mutamento ciclico che determinava le stagioni e faceva maturare i frutti. “Grazie a me – gli fa dire Properzio nelle Elegie – si azzurrano i grappoli della prima uva e la spiga si gonfia di latice. Puoi vedere qui le dolci ciligie, le prugne d’autunno, le more arrossate al sole dell’estate; qui con corone di frutti l’innestatore viene a pagare il suo voto”.
Il 17 seguiva la festa in onore di Portuno, il dio dei porti e delle porte, apparentato quindi a Giano, significativamente festeggiato nel medesimo giorno, mentre il 19 si celebravano le Vinali Rustiche, dedicate a Venere. “Si dà il nome di Vinali Rustiche al 19 agosto – spiega Varrone – perché in quel giorno si dedicò un tempio a Venere e a questa dea sono sacri gli orti: onde è il giorno di festa per gli ortolani”. In tale giorno si indiceva anche la futura vendemmia.
Il 21, invece, era consacrato a Conso, dio del raccolto immagazzinato, ed il 23 a Openconsiva, l’abbondanza agricola personificata. Infine, le sagre di agosto si chiudevano con un nuovo sacrificio a Vortumno.

Nel corso degli interi festeggiamenti, in tutto l'impero, venivano organizzate corse di cavalli e gli animali da tiro, asini e muli, venivano dispensati dal lavoro e agghindati con fiori.
E tale spirito del riposo e perfino talune forme di celebrazione rivivono intatte nel nostro ‘Ferragosto’.