domenica 27 maggio 2012

L’Ultima Religione


Lo ammetto: non è stato agevole, per me romanista, assistere alla (bella) partita tra la nazionale Indonesiana e l’Inter, la mitica F.C. Internazionale.
Oronzo Pugliese, iconico allenatore degli anni '60
Sono diventato romanista a meno di dieci anni, quando mio padre mi presentò, in casa di amici, un signore che subito si era dimostrato affettuoso nei miei confronti: Oronzo Pugliese, iconico allenatore di calcio degli anni ’60, quello che con un “piccolo” Foggia, il 31 gennaio 1965, inflisse una “storica” sconfitta all’Inter campione del Mondo del “Mago” Helenio Herrera (io c’ero: 3 a 2, gol di Lazzotti e doppietta di Cosimo Nocera per annullare i gol di Peirò e Suarez!). Peraltro, non molti sanno che tale vittoria, in mattinata, era stata preannunciata a Helenio Herrera da Padre Pio: “oggi a Foggia perderete , ma poi vincerete il campionato”.
Oronzo Pugliese, profeta ante litteram del calcio moderno, poco dopo l’incontro che mi folgorò, lasciò il Foggia delle meraviglie per approdare alla Roma - non ancora “magggica” - determinando l’avvio della mia condizione di tifoso della Roma.
E come può esser dura la condizione del tifoso, pronto ad esaltarsi per una vittoria, magari striminzita ma di alto valore simbolico, poi afflitto da depressione nel caso di sconfitta, soprattutto se cocente non per il risultato ma per l’autore del ‘maltolto’.
Yanto, giovane professionista indonesiano
tifoso interista da quattordici anni

E poi i riti, le beffe, le gioie, le amarezze, le consolazioni, le vittorie! Chi non vive la condizione del tifoso non riesce a comprendere i turbamenti profondi o i momenti di elevata esaltazione che la propria Squadra riesce a donare o infliggere. “Cambia squadra!” mi suggeriva una persona a me cara quando mi vedeva triste dopo una sconfitta, dimostrando in tale affettuosa consolazione tutta la propria lontananza dall’essere del tifoso. E ho rivisto l’essenza del tifoso in Yanto, proprio nello stadio Bung Karno di Jakarta durante la partita Indonesia Inter. Yanto, un giovane professionista indonesiano, fervente tifoso nerazzurro (chissà poi perché, lui di Jakarta, tifoso dell’Inter da oltre 14 anni). Era allo stadio con il perfetto armamentario del supporter: maglietta (di Zanetti), sciarpa, cappello nerazzurro a bombetta, perfetta conoscenza di cori e gesti e, soprattutto, di ogni giocatore (nome e cognome, numero di maglia, esperienze più recenti, etc.). 
La "Curva" interista allo stadio Bung Karno di Jakarta
 Aveva il sogno di incontrare di persona alcuni calciatori, ma sopratutto Milito, ed era andato al mattino nell’albergo ove la squadra era scesa. Aveva preso la colazione proprio lì nella speranza di incontrare i suoi beniamini che, invece, conducevano vita “appartata”, relegati in due piani dell’albergo stesso. Ma un addetto alla sicurezza gli aveva suggerito di provare alla pasticceria ove Milito avrebbe poco dopo acquistato dei dolci. E, infatti, l’incontro è avvenuto, ma senza ottenere l’agognato autografo. Yanto soffriva allo stadio, si sgolava con i cori in perfetto italiano, non sopportava che l’Inter soffrisse l’Indonesia, la nazionale, dopo tutto, del suo Paese (e, a differenza della gran parte degli spettatori, me compreso, non ha esulato ai due gol dell’Indonesia!). Ma poi ecco finalmente le doppiette di Coutinho e di Pazzini, ma non il gol del “suo” Milito. Comunque l’Inter trionfa 4 a 2! Yanto mi esprime tutta la sua felicità: Yes, I am happy!!!
Certo la nostra epoca presenta a volte aspetti di vera schizofrenia: ci vantiamo della flessibilità massima, siamo orgogliosi del nostro esser ghibellini e alieni dai credi, riusciamo a cambiare lavoro, moglie o marito e perfino sesso, paese di residenza, lingua e religione, seguiamo le mode più disparate, i costumi più inusuali, l’abbigliamento più inverosimile, etc. etc. etc. Ma poi restiamo intrinsecamente attaccati alla nostra squadra di calcio, il nostro totem, l’essenza della nostra intima certezza!
Nel nostro mondo laico, davvero l’ultima religione.


domenica 13 maggio 2012

Un Tesoriere Illustre ma Misterioso

È difficile credere che Umberto Eco, nello scrivere “Il Cimitero di Praga”, abbia pensato a Belsito oppure a Lusi, moderni tesorieri di partito. Eppure, nel suo romanzo, Eco si occupa anche di un tesoriere illustre: Ippolito Nievo, il cassiere della Spedizione dei Mille.
Ippolito Nievo
Tesoriere della Spedizione dei Mille
Sulla missione garibaldina è stato detto di tutto. Taluni ritengono che il regno del Piemonte, di là dalle posizioni ufficiali, fosse in realtà assai coinvolto nella vicenda, anche dal punto di vista finanziario. Altri sostengono che il principale appoggio sia venuto dagli inglesi, con un finanziamento importante in Piastre Turche (anche allora si voleva evitare la “tracciabilità”), stante l’obiettivo di evitare che la penisola italiana divenisse mera espressione degli interessi francesi. Il Ministro Disraeli aveva tuonato alla Camera dei Comuni: "Se le acque dell'Adriatico venissero turbate, l'agitazione si estenderà sul Reno, e l'Inghilterra sarebbe forzata a sguainare la spada, non solo per motivi di civiltà, ma anche d'interesse".
Sta di fatto che al culmine delle pressioni su Garibaldi per indurlo a dimostrare la limpidezza dell’organizzazione della sua Spedizione, il Generale chiese al tesoriere Ippolito Nievo (quello de “Le confessioni di un Italiano”) di raccogliere tutta la documentazione in due casse che, con lo stesso Nievo, furono imbarcate sul piroscafo “Ercole” a Palermo con destinazione Napoli.
Alle ore 12.55 del 4 marzo 1861, al comando del capitano Michele Mancino, la “Ercole” salpò con 12 uomini di equipaggio, 60 passeggeri, 232 tonnellate di merce. Il mare era calmo, ma alle 5 del mattino successivo la “Ercole” si trovò in piena burrasca. Una nave inglese che seguiva intravide il piroscafo sul punto di inabissarsi e riportò sul libro di bordo: "Avvistato relitto vapore alla deriva a 150 miglia da Palermo su rotta Palermo-Napoli".
Moneta da 500 Piastre Turche del XIX Secolo
Alcuni storici sostengono che gli inglesi abbiano finanziato
la Spedizione dei Mille con tre milioni di Franchi elergiti in Piastre turche
Vi furono indagini, ricerche, polemiche, perfino un'inchiesta ministeriale: non si riuscì a far luce sul mistero. Fu solo possibile stabilire che l'"Ercole" affondò, presumibilmente tra Punta Campanella e le piccole Bocche di Capri, per lo scoppio delle caldaie. Tuttavia, non un naufrago né un resto dell’imbarcazione furono mai rinvenuti, alimentando il mistero attorno a questo primo enigma dell’Italia riunificata.
Tale mistero, tuttavia, era destinato a suscitare molti interessi. Nel 1868, Giulio Di Vita, uno studioso massone, presenta un rapporto al Collegio Maestri Venerabili del Piemonte dal titolo ‘Finanziamento della spedizione dei Mille’. Di Vita riferisce di documenti rinvenuti in archivi londinesi che attestavano finanziamenti dei britannici a Garibaldi per 3 milioni di franchi francesi, versati in ‘piastre’ oro turche: una cifra enorme, utile per “convertire alla democrazia liberale” molti dignitari borbonici. Si dice, infatti, che la capitolazione di Palermo sia avvenuta grazie all’oro versato al generale Lanza. Innegabile che un manipolo di uomini sbarcati a Marsala mise in fuga 100mila uomini al prezzo di soli 78 caduti. E neppure sfuggiva la forte influenza inglese su Marsala, ove avvenne lo sbarco garibaldino sotto la vigile presenza di navi militari britanniche, oppure la “coincidenza” della firma della resa della Sicilia siglata, nel porto di Palermo, a bordo di una nave battente bandiera inglese.
Capri vista da Punta Campanella
In queste acque sarebbe avvenuto il naufragio della "Ercole"
Cento anni più tardi, quando le poste italiane emisero un francobollo commemorativo di Ippolito Nievo, il nipote Stanislao decise di riprendere le ricerche per chiarire il mistero che lo assillava da anni. Dell'"Ercole" non è stato trovato mai nulla: né un naufrago, né un albero, né un pezzo di legno, né altro relitto. Stanislao frugò per otto lunghi anni negli archivi delle emeroteche, nei musei, si affidò alla parapsicologia per esplorare il buio del passato, spinse illustri esperti di profondità marine nell'oscurità degli abissi in cui si presumeva riposasse la carcassa dell'"Ercole". Il risultato di tanta appassionata fatica fu un naufragio non meno avventuroso di quello dell'"Ercole". All’Archivio di Stato Stanislao rinvenne 500 fascicoli che riguardano la Spedizione dei Mille, ma non quello che cercava. La cartella intestata al ‘colonnello Nievo’ è semplicemente vuota!
Il risultato massimo degli sforzi di Stanislao fu “Il prato in fondo al mare”, un romanzo sul tema, pubblicato nel 1974 da Mondadori. Il primo segreto dell’Italia riunita rimane tuttora un mistero.




sabato 7 aprile 2012

MONIKA E ANTONIO

È trascorso da poco - lo scorso 17 marzo - il ventesimo anniversario della scomparsa di Monika Mann, quarta dei sei figli del premio Nobel Thomas. Tutti conoscono i capolavori del grande scrittore tedesco e molti apprezzano anche le opere di Monika. Non tanti, invece, sono a conoscenza dell’Amore che Monika nutriva per Capri e, soprattutto, per Antonio.
Monika, nata a Monaco di Baviera nel giugno 1910, aveva un rapporto piuttosto conflittuale col padre, il cui diario contiene varie espressioni non lusinghiere per Monika. Ella, tuttavia, sosteneva di non averlo mai letto, perché “mi parrebbe troppo indiscreto” conoscere i suoi segreti.

Monika Mann
 trascorse una parte importante della sua vita a Capri
Amò molto l’Italia e, nel 1934, si trasferì a Firenze per coltivare la sua inclinazione verso la musica. Qui incontrò Jenö Lányi, uno storico dell’arte ebreo ungherese che, a seguito delle leggi razziali del ‘38, si trasferì in Inghilterra, ove Monika lo seguì e lo sposò nel ’39. Ma quando la coppia decise di trasferirsi in Canada e si imbarcò sulla “City of Benares”, questa nave fu affondata dagli U-Boot tedeschi. Jenö annegò (Monika ricordava di averlo sentito chiamarla per tre volte prima di esser inghiottito per sempre dalle onde) mentre la giovane moglie passò venti ore su una minuscola scialuppa, prima di esser soccorsa da una nave militare inglese che riportò i naufraghi in Scozia.

In seguito Monika raggiunse i genitori negli Stati Uniti e cominciò a scrivere, ma riemersero gli antichi dissapori. Così, quando alla fine della guerra la famiglia rientrò in Europa, alla severità di Zurigo, scelta dai propri familiari, Monika preferì l’Italia: Firenze prima (da dove sarebbe stata “cacciata” da due topi che entrarono nella sua stanza) poi, esclusa la “troppo rumorosa” Roma, accettò un invito di certi amici a Capri. Doveva esser una vacanza…
L’incontro fatale avvenne il 2 dicembre 1953: Monika era “mortalmente stanca degli intellettuali” (vedova di uno storico dell’arte, aveva avuto l’opportunità di conoscere e frequentare gli artisti e gli scrittori più brillanti) e stanca anche della vita cosmopolita (aveva quarantatre anni e aveva vissuto in Germania, in Francia, in Italia, in Inghilterra, in America e in Svizzera). Cercava pace, diceva lei stessa, s’innamorò di Antonio Spadaro, pescatore e muratore caprese, ”sensibile, saggio, profondo. Che capiva".
Villa Monacone, guarda sui Faraglioni
Per oltre trenta anni fu il nido d'amore di Monika e Antonio
Vissero oltre trent’anni nella casa del Monacone, una villa affacciata sui Faraglioni, costruita da Ciro, padre di Antonio. Monika divenne una perfetta moglie caprese, attenta alla casa e affettuosa cuoca per il suo Antonio. Nel pomeriggio lo aiutava a servire i clienti del loro bar o a vendere i piccoli oggetti in terracotta che Antonio stesso realizzava o i velieri in miniatura, nella cui costruzione egli eccelleva. La sera, mentre lei ascoltava musica classica, Antonio si appisolava in poltrona, poi Monika leggeva o scriveva e Antonio dormiva.

Sebbene dedicata a lui ("Fur Toni"), Antonio non lesse mai Vergangenes und Gegenwärtiges, "Passato e presente", la più importante opera di Monika Mann, essendo scritta in tedesco e mai tradotta in italiano. Anzi, per leggere “Guerra e Pace”, ricordava Monika, ci son voluti quasi trent’anni.
Raccontano che lui la chiamasse "Signora", forse nella convinzione di una qualche ‘superiorità’ di lei. Chissà, forse è questa la ragione per la quale non si sposarono mai, sebbene Monika sosteneva che "ci si sposa una sola volta nella vita".
Antonio morì nel 1985 e Monika non volle più restare a Capri. Si trasferì nella vecchia casa dei genitori a Kilchberg, non lontano da Zurigo, ove morì 17 marzo 1992.

sabato 24 marzo 2012

Una Previdenza Antica

L’epoca che ci è dato in sorte di vivere, a volte, si rivela un po’ arrogante e perfino presuntuosa. Certamente l’Uomo ha messo i piedi sulla Luna; grazie allo sviluppo tecnologico, ha vinto lo spazio e un giorno - chissà? - sarà vinto anche il tempo. Ora, intanto, attendiamo l’intelligenza che metterà ordine nei nostri sistemi e ci governerà, senza più il bisogno di ricorrere al “ce lo chiede l’Europa!” E, forse con una grande risata, seppellirà tutto il nostro piccolo mondo, del quale siamo tanto orgogliosi.
Ciononostante, la nostra epoca ne ha di primati importanti da vantare e tra di loro vanno sicuramente ascritti la liberalità nei costumi e la protezione sociale. Ma neppure in questo siamo i primi!
Uno degli effetti più malvagi della liberalità dei costumi sono i bambini miserevolmente abbandonati alla nascita. Il fenomeno - purtroppo non nuovo - aveva preoccupato già papa Innocenzo III che, nel 1198, si diceva scandalizzato per i frequenti ritrovamenti di corpicini di neonati impigliati nelle reti dei pescatori del Tevere e, anche per tale ragione, creò l’Ospedale di Santo Spirito.
La Ruota dell'Ospedale S. Spirito di Roma
come appare oggi
L’Ordine ospedaliero di S. Spirito si diffuse celermente in Italia e in Europa, arrivando a contare oltre 500 filiali e divenendo il punto di riferimento dell’evoluzione della pratica medica dell’epoca. L’Ospedale di S. Spirito di Roma, tuttora attivo, già allora era strutturato su reparti differenti di medicina generale, la cura degli anziani, un lebbrosario, un nido per l’infanzia che comprendeva il “servizio” di numerose balie, un reparto per accogliere bambini figli di donne indigenti oppure di meretrici. Tali bambini a volte erano partoriti nell’ospedale stesso, altre volte fuori dall’ospedale e abbandonati nella “ruota”. In tal caso, essi venivano registrati come ‘filius m. [matris] ignotae’, da cui il romanesco ‘figlio di mignotta’.

La prima Ruota cominciò a funzionare nell’ospedale di Marsiglia nel 1118, seguita poco dopo da quella di Aix en Provence e di Tolone. Le ruote si diffusero molto rapidamente in Francia, in Italia, in Spagna e in Grecia ma non nei paesi di cultura germanica.
Presso tali popoli, anzi, le ragazze madri non erano socialmente condannate e gli infanticidi erano rari: le ragazze madri dovevano prendersi cura del loro bambino. A Berlino, l’autore dell’abbandono, se identificato, veniva condannato all’ergastolo e i suoi beni andavano al trovatello. A Berna l’esposizione di neonati era punita con i lavori forzati. 
 Tondi di Della Robbia raffiguranti Putti in Fasce
che impreziosiscono l'Ospedale degli Innocenti di Firenze
Il congegno della Ruota non era altro che un tamburo di legno munito di un piccolo sportello che ruotava su di un’asse verticale. Il neonato era deposto nella Ruota in maniera generalmente anonima. A volte, tuttavia, col bimbo era lasciato un segno (una mezza carta da gioco, un piccolo gioiello) necessario per un futuro riconoscimento, nel caso in cui il genitore avesse voluto nel tempo riavere il figlio o almeno riconoscerlo. Deposto il neonato nella Ruota, si suonava una campanella: la “rotara” di turno accorreva per prestare le prime cure e accudire il bimbo.

A Firenze i ”gettatelli”, come erano detti i bimbi abbandonati, sin dalla fine del XII secolo erano affidati al brefotrofio di S. Maria a S. Gallo, alle dipendenze dell’Arte della Seta. Quando la Repubblica di Firenze crebbe per ricchezza e per popolazione tale struttura diventò insufficiente e fu necessario costruire un nuovo grande ospedale, detto “degli Innocenti”, che in piena sintonia con la Firenze dell’epoca, fu commissionato a Filippo Brunelleschi e decorato dai Della Robbia con medaglioni raffiguranti, ovviamente, putti in fasce.
Napoleone di Jacques-Louis David
Nelle Armate Napoleoniche erano molti i "figli della Patria"
Milano, per la cura dei trovatelli, si giovò dell’ospedale del Brolo che, però, successivamente fu specializzato nella cura della sifilide, dilagata dopo la scoperta dell’America. Verso la fine del XVII secolo i bambini esposti furono trasferiti all’Ospedale Maggiore la cui insegna aveva allora come simbolo una colomba, da cui il nome di “colombini”, dato genericamente a quei trovatelli e il cognome Colombo assegnato loro allo stato civile.

Con la rivoluzione Francese e la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino fu proclamata “l’uguaglianza di tutti i bambini che nascono”. Furono, quindi, aboliti gli istituti caritatevoli, laici e religiosi, mettendoli a carico dello Stato e definendo i trovatelli “figli della patria” i quali, con Napoleone, divennero una componente importante delle sue Grandi Armate.
L’avanzare del progresso ha comportato, tra l’altro, l’abolizione della Ruota. L’ultima a chiudere, in Italia, fu quella di Ancona nel 1922. Ciò, tuttavia, non ha evitato che nella nostra civilissima epoca si continuino a ritrovare neonati abbandonati nello squallore dei parcheggi di periferia o addirittura nei cassonetti della spazzatura.

domenica 4 marzo 2012

@: Un’Icona Duplice

Francesco Lapi, commerciante fiorentino del sedicesimo secolo, non poteva immaginare se stesso come un antesignano di internet e della email. Eppure, è proprio in una sua lettera da Siviglia, datata 24 maggio 1536, che compare il simbolo della ‘chiocciolina’, l’oggi onnipresente @.
Francesco descrive l’arrivo in Spagna di tre navi che trasportavano oro e argento dal Nuovo Mondo e aggiunge che c’era anche “una @ di vino, che è un trentesimo di un barile, vale la pena di 70 o 80 ducati”.
Particolare della lettera di Francesco Lapi,
 datata 24 maggio 1536, in cui compare il simbolo @
In uno studio realizzato per la Treccani (“L'icon@ dei Mercanti”), Giorgio Stabile, professore di storia della scienza all’Università la Sapienza di Roma, rileva che la lettera di Francesco Lapi dimostra che “il simbolo @ è l’abbreviazione di anfora, una misura di capacità basata sui vasi di terracotta utilizzati per il trasporto nel mondo mediterraneo antico".

D’altra parte, nota ancora Stabile, il termine spagnolo arroba, che oggi indica @ in Spagna e in America Latina (derivato dall’arabo rub'a "un quarto" usato come unità di misura), designava nel passato sia un’unità di peso (25 libbre) che una di misura (principalmente per vino ed olio) e era tradotto proprio con anfora, già nel “Vocabulario español-latino” dell’umanista e grammatico Antonio de Nebrija, edito a Salamanca nel 1492.
È certamente successivo l’utilizzo della chiocciolina nel linguaggio contabile anglosassone nel significato di “at a price of” (al prezzo di) seguito dalla quantità di moneta, peraltro ancora oggi usato in certi mercati.
Dal 2010 @ è al MoMA di New York.
Si tratta della prima acquisizione gratuita operata dal MoMA
essendo tale Simbolo patrimonio universale 
Proprio come Francesco Lapi, anche Raymond Tomlinson non si rese conto della rivoluzione che stava innescando quando, esattamente quaranta anni fa, trasmise la prima email. Arrivò perfino a implorare il suo amico e collega Jerry Burchfiel di non parlarne a nessuno, essendo quel primo messaggio qualcosa di diverso rispetto alla ricerca loro assegnata.
La ‘novità’ non irrilevante introdotta da Tomlinson consisteva nella possibilità di inviare messaggi a utenti di computer differenti. Ciò, tuttavia, poneva l’esigenza di identificare i diversi ‘host’ mediante un segno distintivo che fosse assente nel nome di qualunque possibile utente.

La scelta cadde sul simbolo @ (che nel decennio successivo cominciò ad avere il suo posto sulle comuni tastiere di computer) sia perché tale simbolo non compare in alcun nome in nessuna lingua e sia perché, simboleggiando la preposizione locativa “a”, at in inglese, sembrava precisare che il messaggio era inviato a quello specifico utente @ quello specifico computer.
Nel 2010 il simbolo della chiocciolina è entrato a far parte della collezione del prestigioso Museum of Modern Art (MoMA) di New York; ma vi è entrato come icona dei nostri tempi, quindi grazie a Ray Tomlinson. Nessuna menzione per Francesco Lapi, mercante fiorentino del sedicesimo secolo.

 

domenica 26 febbraio 2012

Sotto la Croce di San Giorgio

L’increscioso episodio di pirateria nell’oceano Indiano, che ha visto coinvolti una nave e due militari italiani, ha attirato ancora una volta l’attenzione generale sui pirati e sulla pirateria, fenomeno vecchio quanto la navigazione stessa.
Plutarco ci narra di un giovane Giulio Cesare catturato dai pirati e liberato solo dopo il pagamento di un riscatto di cinquanta talenti (in verità i pirati ne avevano richiesti solo venti, offendendo in tal modo il futuro imperatore il quale riteneva il valore della propria vita ben più alto e che, quindi, impose ai suoi carcerieri di portare la richiesta a cinquanta talenti). Tornato libero Giulio Cesare organizzò una flotta per inseguire i suoi rapitori che furono tutti catturati e crocifissi.
La Croce di San Giorgio
antica bandiera della Repubblica di Genova
Anche in epoche successive la pirateria continuò a esser un’attività praticata e lucrosa. Tuttavia, i pirati erano - e sono – particolarmente attenti alla profittabilità della possibile preda e, soprattutto, a evitare assalti a potenze in grado di rispondere ai loro attacchi.

All’epoca delle crociate, nei primi secoli dello scorso millennio, il Mediterraneo era infestato di pirati, soprattutto di origine araba. Anche allora, tuttavia, erano evitati attacchi a potenze temute e rispettate. Ad esempio, le navi che battevano la bandiera con la Croce di San Giorgio (antico emblema della temuta e rispettata Repubblica di Genova) godevano di una sorta di immunità, derivante dal timore e dal rispetto attribuiti alla prestigiosa Repubblica.
La garanzia era tale che altri regni trattarono con Genova l'uso della sua Bandiera. Lo stesso Riccardo Cuor di Leone, in partenza per la terza crociata, avrebbe chiesto e ottenuto – contro il pagamento di un tributo annuale al Doge di Genova - l’utilizzo della bandiera di San Giorgio, proprio per proteggersi dagli attacchi di pirateria.
Sebbene altre fonti facciano risalire tale accordo ad alcuni decenni successivi, sta di fatto che la bandiera con la Croce di San Giorgio (croce rossa in campo bianco) è divenuta sin dal tredicesimo secolo la bandiera inglese ed anche della città di Londra (pur senza la spada e, soprattutto, il motto latino “Domine dirige nos”, guidaci, oh Signore!).  
Elisabetta I nomina Baronetto Francis Drake
Curiosamente, per l’alternarsi dei cicli storici, proprio gli inglesi, nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, si distinsero per un’attiva pratica della pirateria, sebbene, usufruendo la stessa della legittimazione dell’Autorità sovrana, si debba più correttamente parlare di imprese corsare. Infatti, attraverso una “lettera di corsa” emessa dal governo, si autorizzava un gruppo privato ad assalire e catturare bastimenti mercantili ‘nemici’, rendendo di fatto legale la pirateria anzi, perfino nobilitandola, visto che le azioni erano svolte per conto e a favore del proprio governo che, in definitiva diveniva il principale beneficiario del bottino. In cambio l’autorità’, mediante la “lettera di corsa”, attribuiva lo status di combattente e autorizzava l’uso della Bandiera nazionale, permettendo al corsaro di rapinare le navi nemiche e di uccidere in combattimento. Famosissimi Francis Drake, addirittura insignito del titolo di Baronetto, e Henry Morgan per i loro assalti ai galeoni spagnoli e portoghesi carichi di ori, argenti e spezie, che contribuirono in maniera rilevante alla costruzione della ricchezza e della potenza marinara inglese.
Non sappiamo quanto renda la pirateria di oggi – che, come sempre, colpisce principalmente chi non reagisce e si piega più facilmente al ricatto – e, soprattutto, non sappiamo quali nobili potenze di domani nasceranno da tali deprecabili azioni dei nostri giorni.


martedì 21 febbraio 2012

Le Note Oblique

Mi fa piacere condividere questa bella e interessante videoclip di una giovane e promettente band di Lucera (la mia citta' natale).
Ai giovani musicisti de "Le Note Oblique" molti cari auguri di grande successo ! ! !