sabato 27 novembre 2010

Privacy Vs Condivisione

Probabilmente il più giovane miliardario al mondo, il ventiseienne Mark Zuckerberg è soprattutto conosciuto per aver creato Facebook. Il suo social network ha saputo intercettare e dare una risposta al bisogno primario di relazione e di condivisione, proprio dell’uomo.
Facebook, tuttavia, rappresenta anche l’essenza stessa di internet: la connessione tra persone, ovunque esse siano, anche con la possibile fruizione di servizi ‘nuovi’ che, in realtà lo stanno trasformando in qualcosa di ancora più ricco e sofisticato.
A differenza, ad esempio, della televisione – unidirezionale – il web consente una forma di partecipazione assolutamente nuova: permette di entrare in contatto con chiunque, di partecipare a discussioni su platee sempre più ampie, di interloquire in maniera diretta assolutamente con chicchessia, come dimostrano la possibilità di inviare una e-mail direttamente anche al presidente degli Stati Uniti, oppure i successi in termini di “amicizia” perfino della Regina Elisabetta.
E ciò non è che l’inizio, considerati i cambiamenti ulteriori che saranno introdotti da internet, che diventerà una esperienza sempre più personale, con la tendenza a costruire progetti – e prodotti - attorno ai desideri ed alle necessità della gente.
Tale evoluzione, di per sé assolutamente positiva, comporta tuttavia cambiamenti dai molteplici aspetti: il concetto stesso di privacy evolve profondamente. Nel passato nessuno desiderava che i propri dati fossero pubblici, oggi è impressionante il numero di persone che rende disponibile il numero del proprio cellulare su Facebook. Per la mia generazione la privacy era (ed è tuttora) un valore: per i più giovani fruitori di Facebook condividere sembra esser il “nuovo” valore. Certamente ciascuno può decidere liberamente cosa fare dei propri dati, nei fatti si è in un ingranaggio di “condivisione” sempre più interattivo e personalizzato.
Forse dovremo esser pronti ad accettare una “invadenza” sempre più accentuata, frutto di un mondo altamente tecnologico, con media sempre più raffinati e vicini. Potremo accedervi da ogni terminale (computer, tablet, smartphone, televisori digitali, console per giochi, etc.) al quale cederemo, però, una elevata possibilità di entrare anche profondamente nella nostra sfera (ex) privata.

 

domenica 14 novembre 2010

Quod Non Fecerunt Barbari…

Maffeo Barberini, divenuto Papa Urbano VIII, commissionò a Gian Lorenzo Bernini (che per l’occasione godette della collaborazione di numerosi artisti, tra cui il suo ‘rivale’ Francesco Borromini) il Baldacchino di San Pietro, imponente monumento barocco, ideato per segnare il luogo del sepolcro di San Pietro.
Per la realizzazione dell’opera furono necessari dieci anni (1623 – 1633) e, soprattutto, si dovette ricorrere ad una nuova spoliazione del Pantheon, dal quale furono asportati e fusi gli antichi bronzi di sculture poste sul frontone ed elementi di copertura del pronao.
Giulio Mancini, medico di Urbano VIII, commentò la scellerata decisione con la celebre “quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barberini”, volendo con ciò porre l’accento sulla smisurata ambizione della famiglia del pontefice che, pur di autocelebrarsi con monumenti spettacolari, non si fermava neppure di fronte al danneggiamento di uno dei monumenti più importanti dell’Urbe.
Tuttavia, la magnifica opera di Bernini – monumento che fonde scultura ed architettura con l’allegorica rappresentazione di colonne tortili (come nel Tempio di Salomone), del ciborio della preesistente basilica di San Pietro, delle fasi del parto attraverso espressioni diverse di un volto femminile, la passione per la poesia di Papa Urbano mediante tralci di lauro, l’omaggio al casato del papa con la rappresentazione delle api, presenti nello stemma dei Barberini - certamente non giustifica, ma almeno nobilita la spoliazione del monumento dell’imperatore Adriano.
Diversa è, invece, la “spoliazione” alla quale assistiamo oggi, frutto di incuria, più che del desiderio di smodata autocelebrazione. Ci si è, purtroppo, abituati ai crolli della Domus Aurea o di pezzi anche importanti di Mura Aureliane (che hanno sopportato per diciassette secoli quasi ogni assalto barbaro) ma dovevamo ancora assistere al crollo di un monumento che aveva resistito perfino alla forza della natura, all’eruzione del Vesuvio dell’estate 79 d.C.
Ecco, allora, il crollo, per incuria, della “Schola Armaturarum Juventis Pompeiani”, comunemente conosciuta come la Casa dei Gladiatori.
Il monumento si trovava nel corso principale dell’antica Pompei, la via dell’Abbondanza (beffa del fato!), e in origine ospitava gli armadi lignei dove venivano conservate le armi dei gladiatori. Al suo interno la “juventus pompeiana” si allenava alla lotta.
Le mura esterne erano decorate con gli affreschi dei gladiatori, mentre all’ingresso si potevano ammirare due pilastri istoriati con trofei, in ricordo di Augusto: quello di sinistra con armi accatastate ai piedi di un tronco e, in basso, una tunica decorata con tritoni e grifi alati. Sopra, un elmo e ai lati alcune lance. In alto, una tunica rossa. Sul pilastro di destra scudi e lance circondavano un carro ricoperto da una pelliccia di orso bianco.
Quod non fecerunt Barbari….

 
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sabato 6 novembre 2010

Pornocrazia

È stato Liutprando (920-972), storico e vescovo di Cremona, a definire ‘pornocrazia’ il modello di potere le cui fila erano abilmente manovrate da Marozia, figlia di Teofilatto, senatore romano e conte di Tuscolo, e Teodora, “prostituta spudorata” secondo lo stesso Liutprando.
Si racconta che Marozia fosse molto bella ma, soprattutto, che sapesse usare con raffinata perfidia e sconfinata ambizione quanto la natura le aveva regalato. Marozia è divenuta l’icona della depravazione: animatrice d’una fitta catena di crimini, incesti ed intrighi, lussuriosa amante di pontefici e politica abilissima. Il papa Giovanni X, la cui alcova era stata frequentata anche da Teodora, madre di Marozia, la insignì del titolo di “Senatrix Omnium Romanorum”, appellandola perfino “Patricia”.
A quindici anni Marozia era già la concubina del papa Sergio III, cugino di suo padre, e nel 910 da tale relazione nacque Giovanni, il futuro papa Giovanni XI.

Dopo la morte del primo marito, Alberico I duca di Spoleto, Marozia sposa Guido, marchese di Toscana, grande oppositore di Giovanni X che, infatti, Marozia e Guido faranno deporre e rinchiudere in Castel Sant’Angelo, ove Giovanni troverà la morte per strangolamento. Dopo i brevi pontificati di Leone VI e Stefano VII, Marozia riesce a far salire sul trono di Pietro Giovanni XI, nato dalla sua relazione con Sergio III. Giovanni ha solo ventuno anni, un temperamento fragile e molta inesperienza. Sarà, pertanto, la madre a governare per suo conto, facendo così nascere la leggenda della “papessa Giovanna”, vale a dire di una donna che in vesti maschili governò per un certo periodo la chiesa di Roma.
Marozia, nel 932, convola a nuove nozze, questa volta con Ugo di Provenza, eletto re d’Italia, che Gregorovius descrive come perfido e maestro di intrighi, dissoluto e avido, audace e privo di scrupoli, teso soltanto ad ampliare il suo regno italico, anche con i mezzi più sleali.
Ugo era il più genuino rappresentante del suo tempo, ma anche Marozia lo è: i due formarono senza dubbio una coppia assai rappresentativa della loro epoca.
Nel “de oratore”, Cicerone ci insegna che la storia è testimone dei tempi, luce della verità, maestra di vita. Qualche volta si ripete, ma spesso le repliche non sono all’altezza dell’originale.

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