venerdì 17 dicembre 2010

La Vera Verità e Tre Evidenti Falsità

Caro Mass,
permetti che anche io possa esprimermi sul momento di pathos vero che attraversa la vita pubblica italiana.
Tutti i maggiori osservatori sono concentrati nell’esame minuzioso del significato e delle conseguenze del voto parlamentare di martedì scorso. Lucidissimi e profondi i commenti di Ferrara, di Travaglio, di Feltri, di Romano. Etc. Stupisce, tuttavia, che pochi hanno rilevato i soli tre veramente grandi significati del voto alla Camera del 14 dicembre.
1. Si dice che in Italia non facciamo più figli. Falso! Le deputate sono 133 (su 630). Di queste ben tre si sono recate (perfino in carrozzella) a votare la fiducia/sfiducia in avanzatissimo stato di gravidanza. Senza
 considerare eventuali ulteriori gravidanze meno avanzate e non rese pubbliche, la Camera si rivela nicchia di eccellenza, per lo meno in tema di tasso di natalità.
2. Si dice che l’Italia non valorizzi le proprie tradizioni e le sue radici. Falso! Nell’era del trionfo dell’elettronica l’Italia, meglio il Parlamento o la politica, resta saldamente ancorata al pallottoliere, anzi all’abaco.
3. Si dice che l’Italia, anzi Roma e la funzione pubblica incarnata da Roma, sia la quintessenza dell’Assenteismo. Falso! Alla Camera, al voto del 14 dicembre, si sono presentati ben 628 deputati su 630. Percentuali bulgare, si sarebbe detto in altri tempi.
E ciò mentre Berta filava, come cantava Rino Gaetano, in evidente antitesi a Orietta Berti (fin che la barca va …)
Tuo
Gustavo


Nell'immagine: "La Lotteria in Piazza di Montecitorio", dipinto di G. P. Panini  (1691-1765) ora alla National Gallery di Londra
 
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domenica 5 dicembre 2010

La Dritta

“Fate luogo voi, la diritta è mia” fa dire Alessandro Manzoni al futuro Fra Cristoforo, nel capitolo IV de I Promessi Sposi. Ambedue, racconta Manzoni, camminavano rasente al muro, tuttavia Fra Cristoforo lo strisciava col lato destro che, secondo una consuetudine allora in voga, gli dava il diritto di non staccarsi dal muro. L’altro pretendeva invece l’opposto: che il ‘diritto alla dritta’ spettasse a lui in quanto nobile.
Ma quale è la “dritta” e perché in molti paesi si guida a destra ed in altri a sinistra?
In epoca medioevale era consuetudine viaggiare sulla sinistra per essere in posizione vantaggiosa per l’eventuale (e frequente) uso della spada. In tal maniera si limitava anche la possibilità che il fodero, indossato sulla sinistra, colpisse le persone che camminavano in senso opposto. Inoltre, la spada posta sul lato sinistro del corpo rendeva più agevole salire a cavallo.
Si fa, tuttavia, risalire a papa Bonifacio VIII (quello del Giubileo del 1300) la prima formalizzazione dell'obbligo di viaggiare sul lato sinistro della strada.
Successivamente, nel 1773, gli inglesi introdussero un “codice della strada” che confermava il lato sinistro come quello sul quale procedere. Nel frattempo, tuttavia, si avventò sull’Europa il “Tornado Napoleonico” e, nel 1794, a Parigi fu emanata una legge che imponeva di procedere sulla destra.
Tale norma certamente rispondeva alla “esigenza” napoleonica di andar contro gli inglesi in qualunque maniera, ma in realtà essa accoglieva anche una pratica già molto diffusa in Francia e negli “alleati” Stati Uniti: il trasporto di grandi quantitativi di prodotti agricoli in giganteschi vagoni trainati da numerosi cavalli. Questi convogli non prevedevano un sedile per il conducente che, infatti, sedeva sull’ultimo cavallo a sinistra, posizione che gli consentiva di frustare i cavalli col braccio destro e controllare che le ruote dei carri provenienti dal lato opposto (che quindi passavano sulla sinistra) non si toccassero con quelle del proprio convoglio.
Napoleone conquistò gran parte dell’Europa continentale ove, quindi, fu adottata tale norma. La pratica della guida a sinistra continua invece ancora oggi in Inghilterra ed in tutti i paesi colonizzati o, comunque, sottoposti all’influenza inglese, salvo che in Scandinavia ove, nel 1967, si optò per la guida a destra.

sabato 27 novembre 2010

Privacy Vs Condivisione

Probabilmente il più giovane miliardario al mondo, il ventiseienne Mark Zuckerberg è soprattutto conosciuto per aver creato Facebook. Il suo social network ha saputo intercettare e dare una risposta al bisogno primario di relazione e di condivisione, proprio dell’uomo.
Facebook, tuttavia, rappresenta anche l’essenza stessa di internet: la connessione tra persone, ovunque esse siano, anche con la possibile fruizione di servizi ‘nuovi’ che, in realtà lo stanno trasformando in qualcosa di ancora più ricco e sofisticato.
A differenza, ad esempio, della televisione – unidirezionale – il web consente una forma di partecipazione assolutamente nuova: permette di entrare in contatto con chiunque, di partecipare a discussioni su platee sempre più ampie, di interloquire in maniera diretta assolutamente con chicchessia, come dimostrano la possibilità di inviare una e-mail direttamente anche al presidente degli Stati Uniti, oppure i successi in termini di “amicizia” perfino della Regina Elisabetta.
E ciò non è che l’inizio, considerati i cambiamenti ulteriori che saranno introdotti da internet, che diventerà una esperienza sempre più personale, con la tendenza a costruire progetti – e prodotti - attorno ai desideri ed alle necessità della gente.
Tale evoluzione, di per sé assolutamente positiva, comporta tuttavia cambiamenti dai molteplici aspetti: il concetto stesso di privacy evolve profondamente. Nel passato nessuno desiderava che i propri dati fossero pubblici, oggi è impressionante il numero di persone che rende disponibile il numero del proprio cellulare su Facebook. Per la mia generazione la privacy era (ed è tuttora) un valore: per i più giovani fruitori di Facebook condividere sembra esser il “nuovo” valore. Certamente ciascuno può decidere liberamente cosa fare dei propri dati, nei fatti si è in un ingranaggio di “condivisione” sempre più interattivo e personalizzato.
Forse dovremo esser pronti ad accettare una “invadenza” sempre più accentuata, frutto di un mondo altamente tecnologico, con media sempre più raffinati e vicini. Potremo accedervi da ogni terminale (computer, tablet, smartphone, televisori digitali, console per giochi, etc.) al quale cederemo, però, una elevata possibilità di entrare anche profondamente nella nostra sfera (ex) privata.

 

domenica 14 novembre 2010

Quod Non Fecerunt Barbari…

Maffeo Barberini, divenuto Papa Urbano VIII, commissionò a Gian Lorenzo Bernini (che per l’occasione godette della collaborazione di numerosi artisti, tra cui il suo ‘rivale’ Francesco Borromini) il Baldacchino di San Pietro, imponente monumento barocco, ideato per segnare il luogo del sepolcro di San Pietro.
Per la realizzazione dell’opera furono necessari dieci anni (1623 – 1633) e, soprattutto, si dovette ricorrere ad una nuova spoliazione del Pantheon, dal quale furono asportati e fusi gli antichi bronzi di sculture poste sul frontone ed elementi di copertura del pronao.
Giulio Mancini, medico di Urbano VIII, commentò la scellerata decisione con la celebre “quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barberini”, volendo con ciò porre l’accento sulla smisurata ambizione della famiglia del pontefice che, pur di autocelebrarsi con monumenti spettacolari, non si fermava neppure di fronte al danneggiamento di uno dei monumenti più importanti dell’Urbe.
Tuttavia, la magnifica opera di Bernini – monumento che fonde scultura ed architettura con l’allegorica rappresentazione di colonne tortili (come nel Tempio di Salomone), del ciborio della preesistente basilica di San Pietro, delle fasi del parto attraverso espressioni diverse di un volto femminile, la passione per la poesia di Papa Urbano mediante tralci di lauro, l’omaggio al casato del papa con la rappresentazione delle api, presenti nello stemma dei Barberini - certamente non giustifica, ma almeno nobilita la spoliazione del monumento dell’imperatore Adriano.
Diversa è, invece, la “spoliazione” alla quale assistiamo oggi, frutto di incuria, più che del desiderio di smodata autocelebrazione. Ci si è, purtroppo, abituati ai crolli della Domus Aurea o di pezzi anche importanti di Mura Aureliane (che hanno sopportato per diciassette secoli quasi ogni assalto barbaro) ma dovevamo ancora assistere al crollo di un monumento che aveva resistito perfino alla forza della natura, all’eruzione del Vesuvio dell’estate 79 d.C.
Ecco, allora, il crollo, per incuria, della “Schola Armaturarum Juventis Pompeiani”, comunemente conosciuta come la Casa dei Gladiatori.
Il monumento si trovava nel corso principale dell’antica Pompei, la via dell’Abbondanza (beffa del fato!), e in origine ospitava gli armadi lignei dove venivano conservate le armi dei gladiatori. Al suo interno la “juventus pompeiana” si allenava alla lotta.
Le mura esterne erano decorate con gli affreschi dei gladiatori, mentre all’ingresso si potevano ammirare due pilastri istoriati con trofei, in ricordo di Augusto: quello di sinistra con armi accatastate ai piedi di un tronco e, in basso, una tunica decorata con tritoni e grifi alati. Sopra, un elmo e ai lati alcune lance. In alto, una tunica rossa. Sul pilastro di destra scudi e lance circondavano un carro ricoperto da una pelliccia di orso bianco.
Quod non fecerunt Barbari….

 
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sabato 6 novembre 2010

Pornocrazia

È stato Liutprando (920-972), storico e vescovo di Cremona, a definire ‘pornocrazia’ il modello di potere le cui fila erano abilmente manovrate da Marozia, figlia di Teofilatto, senatore romano e conte di Tuscolo, e Teodora, “prostituta spudorata” secondo lo stesso Liutprando.
Si racconta che Marozia fosse molto bella ma, soprattutto, che sapesse usare con raffinata perfidia e sconfinata ambizione quanto la natura le aveva regalato. Marozia è divenuta l’icona della depravazione: animatrice d’una fitta catena di crimini, incesti ed intrighi, lussuriosa amante di pontefici e politica abilissima. Il papa Giovanni X, la cui alcova era stata frequentata anche da Teodora, madre di Marozia, la insignì del titolo di “Senatrix Omnium Romanorum”, appellandola perfino “Patricia”.
A quindici anni Marozia era già la concubina del papa Sergio III, cugino di suo padre, e nel 910 da tale relazione nacque Giovanni, il futuro papa Giovanni XI.

Dopo la morte del primo marito, Alberico I duca di Spoleto, Marozia sposa Guido, marchese di Toscana, grande oppositore di Giovanni X che, infatti, Marozia e Guido faranno deporre e rinchiudere in Castel Sant’Angelo, ove Giovanni troverà la morte per strangolamento. Dopo i brevi pontificati di Leone VI e Stefano VII, Marozia riesce a far salire sul trono di Pietro Giovanni XI, nato dalla sua relazione con Sergio III. Giovanni ha solo ventuno anni, un temperamento fragile e molta inesperienza. Sarà, pertanto, la madre a governare per suo conto, facendo così nascere la leggenda della “papessa Giovanna”, vale a dire di una donna che in vesti maschili governò per un certo periodo la chiesa di Roma.
Marozia, nel 932, convola a nuove nozze, questa volta con Ugo di Provenza, eletto re d’Italia, che Gregorovius descrive come perfido e maestro di intrighi, dissoluto e avido, audace e privo di scrupoli, teso soltanto ad ampliare il suo regno italico, anche con i mezzi più sleali.
Ugo era il più genuino rappresentante del suo tempo, ma anche Marozia lo è: i due formarono senza dubbio una coppia assai rappresentativa della loro epoca.
Nel “de oratore”, Cicerone ci insegna che la storia è testimone dei tempi, luce della verità, maestra di vita. Qualche volta si ripete, ma spesso le repliche non sono all’altezza dell’originale.

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domenica 24 ottobre 2010

Matteo Ricci: la ricchezza dalla diversità

Marco Polo è certamente il più famoso italiano d’Asia. Purtroppo, a volte il suo ruolo viene ridotto alla diatriba sugli spaghetti-noodles: ovvero se Marco Polo abbia portato gli spaghetti in Asia oppure i noodles in Europa (dimenticando che già Cicerone mangiava le “lagana”, nonne delle nostre lasagne). Per giunta, una cospicua corrente storiografica inglese mette addirittura in dubbio l’esistenza di Marco Polo (“il Milione” in verità è stato dettato a Rustichello nel carcere di Pisa, non essendo Marco Polo in grado di scrivere) tralasciando, però, che in quel periodo la comunità di affari italiana (veneziana in primis) a Pechino contava circa 700 unità.
Non vi è dubbio, tuttavia, che il più grande italiano in Asia sia stato Matteo Ricci, gesuita marchigiano (Macerata, 8 ottobre 1552) del quale, peraltro, ricorrono quest’anno i 400 anni dalla morte, avvenuta a Pechino l’11 maggio 1610.

Il giovane Matteo raggiunse Goa, nel 1578, dove completò gli studi e fu ordinato sacerdote. Quattro anni dopo, destinato all’evangelizzazione della Cina, raggiunse Macao, ove apprese il cinese, per poi trasferirsi a Kao-yao e, in seguito, a Nanchino “la più bella e la più grande città al mondo”, secondo Marco Polo, che vi era giunto 315 prima.
Matteo Ricci parlava, leggeva e scriveva correttamente il cinese classico e aveva assunto il nome cinese di Li Madou. Egli godeva di molto rispetto ed alta reputazione per le sue conoscenze scientifiche, innanzitutto matematiche ed astronomiche. Quando previde l’eclissi solare, la sua fama crebbe al punto che, nel 1601, l’Imperatore Wan Li lo designò al ruolo di Consigliere della Corte Imperiale, divenendo così il primo occidentale ad accedere alla “Città Proibita”.
Tuttavia, sebbene Matteo Ricci avesse libero accesso alla Città Proibita, mai egli ebbe l’opportunità di incontrare di persona l’Imperatore che, comunque, gli aveva assegnato un generoso appannaggio, che si rivelò fondamentale per lo stabilimento dei Gesuiti in Cina.
Ricci apprezzava molto la cultura cinese, pur condannando la prostituzione largamente praticata nella Pechino dell’epoca. Egli individuò nei ‘valori confuciani’ il mezzo per spiegare il cristianesimo che, nella sua predicazione, divenne non qualcosa di nuovo ed estraneo, ma semplicemente la maniera più perfetta per manifestare la propria religiosità: infatti, il carattere che rappresenta il Dio del Paradiso cinese - 天主 - è identico a quello di Dio.
Matteo Ricci morì a Pechino l’11 maggio 1610, all’età di 58 anni. Le leggi della Dinastia Ming prevedevano che gli stranieri che morivano in Cina fossero sepolti a Macao. Tuttavia, in considerazione dell’alto contributo di Matteo Ricci alla Cina, l’Imperatore Wan Li concesse che egli fosse sepolto a Pechino, destinando a ciò un tempio buddista – divenuto poi noto come il Cimitero di Zhalan - ove, in seguito, trovarono sepoltura anche altri gesuiti.
Matteo Ricci è autore profondo di opere di matematica, di teologia e di filosofia in latino e in cinese che testimoniano la modernità di quest’uomo nato e vissuto in piena controriforma ma capace di intravedere e apprezzare gli aspetti più considerevoli delle diversità culturali, vera ricchezza per l’Uomo di ogni tempo.


Nell'immagine: Matteo Ricci ritratto in abiti cinesi

venerdì 15 ottobre 2010

UN (ALTRO) PRIMATO CHE NON CI APPARTIENE

Per qualcuno sono magici, altri li considerano veri e propri divi, comunque nessuno dubita che siano ottimamente pagati e riescano ad accumulare (ed a spendere) denaro in misura ragguardevole. I campioni dello sport rappresentano certamente un’icona del nostro tempo ed i loro compensi finiscono per incuriosire e formare oggetto del desiderio per folte schiere di ammiratori.
Il golfista Tiger Woods, secondo la prestigiosa rivista Forbes, ha già superato il miliardo di dollari di guadagni, quindi, molto più dei pur decorosamente pagati Michael Jordan e Michael Schumacher. Tuttavia, tali ragguardevoli guadagni sembrano non esser all’altezza dei compensi percepiti nell’antica Roma dagli aurughi. Gaio Apuleio Diocle nel secondo secolo dopo Cristo ha vinto 35.863.120 sesterzi (equiparabili a circa 15 miliardi di dollari odierni): tanto riporta Peter Struck in un articolo pubblicato sulla rivista di storia Lapham's Quarterly, sulla base di una iscrizione su marmo, rinvenuta in un monumento funebre eretto a Roma da 146 ammirati colleghi aurighi del grande Gaio Apuleio Diocle.

Questi, di origini ispaniche, cominciò a gareggiare per la squadra Bianca all’età di 18 anni. Dopo sei anni, passò alla squadra Verde, per approdare, ormai ventisettenne, al Team Rosso per il quale ha gareggiato - "campione di tutti i carri" -  fino al suo ritiro all'età di "42 anni, 7 mesi e 23 giorni". Caio Apuleio Diocle ha vinto 1.462 delle 4.257 gare alle quali ha preso parte, vittorie che, come detto, gli hanno fruttato la considerevole cifra di 36 milioni di sesterzi.
Dobbiamo principalmente a Tacito e Svetonio la descrizione dello svolgimento e più ancora del significato e dell’importanza delle corse presso i romani. Curioso apprendere che l’imperatore Caligola, acceso tifoso dei Verdi, giunse a far avvelenare cavalli ed aurighi avversari per favorire la propria squadra. Il Circo Massimo, ove avevan luogo le manifestazioni sportive di maggior rilievo,  poteva ospitare fino a 250mila spettatori i quali, se plebei, erano disposti a mettersi in coda sin dal giorno prima per ottenere buoni posti. Gli aristocratici, invece, potevano godere di tribune loro riservate. Considerato che tali spettacoli rappresentavano eccellenti occasioni per incontri con signore dell’aristocrazia, Ovidio raccomanda di prestare molta attenzione a dove prender posto, magari “lasciando indugiare la propria mano nel ravvivare e render più soffice il cuscino del sedile della signora”.
Insomma, non solo non abbiamo creato gli sportivi più pagati di sempre, ma nemmeno la ‘mano morta’ sembra esser una invenzione dei nostri tempi.

 
Nell'immagine il Circo Massimo di Roma
 
 
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